Sulla felicità | Riabilitazione psicoaffettiva

Sulla felicità | Riabilitazione psicoaffettiva

Sento spesso parlare di questo desiderio, o forse meglio dire di questo bisogno, di trovare la felicità. Ma poi, quando si parla di felicità, sembra che si tratti di un concetto molto vago. Talvolta ambiguo e sicuramente talmente idealizzato da essere ormai irrealistico. Tanto da alimentare costantemente disagio, sconforto, impotenza e senso di inadeguatezza.

Sembra a volte che la felicità sia un prodotto acquistabile al mercato. E forse è per questo che proliferano venditori di felicità illusoria. Che dispensano ricette apparentemente infallibili, eppure così standardizzate e impersonali.

Come se la felicità fosse una somma di ingredienti specifici e valevoli per tutti.

Appare scontato sottolineare quanto l’idea della felicità sia culturalmente determinata. E anche subdolamente veicolata, affinché tutti rispondano agli stessi stimoli o si sentano condizionati dagli stessi fattori.

Sulla felicità | Riabilitazione psicoaffettiva

Oggi la felicità sembra confusa con l’idea dello sballo, del divertimento estremo, del superare i limiti. O del non avere nessun pensiero negativo. Felicità dunque che sconfina nell’atarassia, nel non avere nessun turbamento. Eppure se la felicità coincidesse con l’atarassia saremmo senza stimoli, senza sentimenti, senza emozioni. E come potremmo essere felici senza emozionarci, senza innamorarci, senza desiderare, senza provare piacere?

Dobbiamo forse iniziare a pensare che la felicità non coincide con l’assenza di preoccupazioni o anche di emozioni scomode. Ma è fatta di piccole cose di valore non quantificabile, di gesti quotidiani, di desideri soddisfatti, di progetti costruiti, di emozioni vissute. E anche di delusioni, di sconfitte, di paure, di preoccupazioni. Di pianti e di risate, di gratificazioni e frustrazioni.

La felicità allora diventa la possibilità personalissima di vivere a pieno la vita in ogni sua sfumatura. Felicità come possibilità di realizzarsi e di sentirsi bene con se stessi. Ovvero di essere appagati di ciò che abbiamo e non di ciò che manca. E di goderci ciò che c’è e non di vivere in funzione di ciò che idealizziamo (e che per sua natura resta inarrivabile e impossibile). Di godere del pieno e non del vuoto. Di vivere in prima persona e nel presente piuttosto che vivere in attesa. Aspettando qualcuno o qualcosa che venga a “salvarci” e delegando a qualcuno o qualcosa il nostro benessere.

Roberta Calvi Psicologa e Sessuologa

 

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