Significato del cibo nel binge eating Comprendere per guarire

Significato del cibo nel binge eating Comprendere per guarire | Dott.sa Roberta Calvi Psicologo Sessuologo in Rimini

Ci siamo già soffermati ad analizzare il significato del corpo nel binge eating (vedi articolo precedente). Ora passiamo ad analizzare i significati che può assumere il cibo per la persona che soffre di binge eating. Ricordando sempre che si tratta di significati generici che poi vanno personalizzati sulla storia e sui vissuti di ognuno.

Non esiste infatti una storia uguale ad un’altra. Per quanto il sintomo, ovvero la manifestazione esternalizzata del dolore psicologico, sia lo stesso in tutti, ogni persona utilizzerà quello stesso sintomo per comunicare ed esprimere a sé e agli altri la propria personale sofferenza.

Il cibo nel binge eating può in primis svolgere una funzione di ansiolitico o antidepressivo. e potremmo anche estenderlo alla bulimia nella fase dell’abbuffata.

L’eccesso di ansia, iperattività, panico può attivare la ricerca compulsiva del cibo per sedarsi, spegnersi, arginarsi e rallentarsi. Il cibo diventa un modo per calmarsi, anestetizzarsi, placare la propria agitazione. Sia essa psicomotoria o solo cognitiva.

Il cibo può fungere anche da antidepressivo per gestire il vuoto, la perdita. Per non sentire la tristezza e melanconia. Per non soffermarsi sui pensieri negativi. Il cibo diventa un consolatore, un amico che coccola, un amante che non tradisce e non abbandona.

Ancora il cibo può servire come antidoto alla noia, quando quest’ultima diventa insostenibile perché richiama il vuoto, quel vuoto carico di mancanze difficili da accettare.

Il cibo diventa in questi casi un passatempo e uno strumento per ottenere sensazioni forti e uscire dal torpore della noia, del ‘non sense’, riempendo il vuoto con l’angoscia.

Significato del cibo nel binge eating Comprendere per guarire | Dott.sa Roberta Calvi Psicologo Sessuologo in Rimini

Roberta Calvi Psicologo Sessuologo Rimini | Studio di Psicologia Sessuologia

Sembra paradossale eppure l’essere umano da un punto di vista psichico preferisce l’angoscia alla noia: il vuoto rappresentato dalla noia costituisce infatti il vissuto maggiormente intollerabile.

Ognuno di noi gestisce meglio la tristezza che la frustrazione. Sebbene l’educazione psicoemotiva ci consenta di tollerare nel corso della vita quote sempre crescenti di frustrazione.

Quando c’è un deficit in questa educazione, gestire la frustrazione è pressoché impossibile. Il cibo si presta come il più accessibile e fruibile oggetto di compensazione disfunzionale della frustrazione.

Il cibo può inoltre nelle abbuffate essere strumento di gestione della rabbia.

La rabbia che non si riesce ad esprimere all’esterno, per senso di colpa o per paura di ripercussioni da parte del destinatario, viene espressa mediante la violenza dell’abbuffata. Violenza che in ultima istanza si ripercuote sul soggetto.

Il cibo rappresenta in ogni caso un perfetto anestetico per non sentire le emozioni che generano turbamento. È un modo per spegnersi. Per staccare la spina. Per cercare anche se patologicamente di ricostruire quell’equilibrio psicologico alterato da un disagio profondo spesso inconsapevole e rimosso.

Roberta Calvi Psicologa e Sessuologa


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